
Accompagnare i bambini alla fine della vita ed i famigliari a condividerne il senso
Accompagnare un bambino gravemente malato nel percorso verso la morte è una delle esperienze più complesse e dolorose che possa capitare nella vita di un adulto, che si tratti di un genitore, parente, amico, operatore sanitario, educatore: aiutare gli adulti “accompagnatori” a comprendere il punto di vista dei più piccoli rispetto alla morte ed al morire è l’argomento esplorato in modo assai sintetico in questo scritto. Una delle motivazioni che mi ha spinto ad approfondire questa tematica è il desiderio di poter supportare i passi faticosi degli adulti che si trovano a vivere questa esperienza integrando le conoscenze legate a questa problematica sul funzionamento della mente umana in fase evolutiva, con un approccio alla persona in una prospettiva “integrale”, mente-corpo-spirito. L’obbiettivo è poter indirizzare in modo consapevole le scelte quotidiane necessarie per camminare in armonia con i bambini, per poter rispondere in modo consapevole e adeguato alle richieste che si presentano nell’accompagnamento. Una seconda motivazione nell’approfondire questa tematica viene dall’ipotesi che arricchire, o forse ancora meglio “recuperare” lo sguardo con cui i bambini guardano il mondo, possa essere di aiuto non solo a vivere l’esperienza assecondando con consapevolezza i bisogni impliciti ed espliciti dei più piccoli, ma anche possa favorire una migliore elaborazione del lutto una volta sopraggiunta la morte.
L’esperienza di malattia grave e l’accompagnamento verso il morire costituiscono una realtà complessa oltre che dolorosa. Sul piano psicologico per i genitori la malattia grave di un figlio, oltre ad essere di per sé un’esperienza drammatica, comporta un turbine di emozioni difficili – la rabbia, la paura, la frustrazione, il senso di impotenza – che non di rado mettono in crisi l’identità soggettiva e minano la stabilità di coppia dei genitori. Ciascuno, compreso il bambino quando è più grandicello e consapevole, elabora il proprio vissuto e, a modo proprio, porta ad interrogarsi sul senso esistenziale dell’esperienza che sta attraversando. La malattia di un figlio ha moltissime implicazioni sociali: rende necessaria una drastica riorganizzazione della quotidianità intorno ai bisogni assistenziali del piccolo malato e, soprattutto nei nuclei più vulnerabili, amplifica il rischio di povertà. Nelle famiglie è necessario conciliare il lavoro e la cura e capita che uno dei coniugi (quasi sempre la madre) debba rinunciare o ridurre il proprio lavoro. Nei nuclei a volte ci sono altri figli: fratelli e sorelle che rischiano di diventare “invisibili” perché tutto sommato “stanno bene”, e il dolore per chi invece bene non sta è troppo grande per lasciare spazio ad altri pensieri. La complessità di tali esperienze risulta essere elevatissima e rende auspicabile, anzi necessaria, una collaborazione sinergica fra figure con competenze diverse per accogliere in modo adeguato i diversi bisogni psicologici, umani, spirituali, sociali e clinici. Nella vita concreta, quando sembra che ‘non c’è più niente da fare’, in verità c’è ancora molto da fare!
Nella riflessione sul percorso verso il morire in ambito pediatrico un documento cardine è La Carta dei Diritti del Bambino Morente o Carta di Trieste (2012) [1], sviluppata da un team multidisciplinare di esperti, in cui vengono definiti i diritti del bambino in dieci proposizioni, e fornita una guida utile a tutti i professionisti che si trovano a dover gestire pazienti minori al termine della vita. La Carta analizza i bisogni del bambino morente, propone le modalità di risposta alle necessità fisiche, psicologiche, relazionali, etiche e spirituali sue e di chi gli è a fianco. Afferma come l’avvicinarsi della morte non determini la sospensione dei diritti della persona, ma anzi come la fragilità del bambino e della situazione ne garantiscano il valore e non ammettano possibilità di diniego, e ribadendo la centralità del bambino gli restituisce il ruolo che spesso non viene riconosciuto. Benini G. e Vecchi R., due tra le autrici del documento, affermano: “la Carta avrà raggiunto il suo scopo se ogni persona che è accanto al bambino che muore saprà rimanergli vicino fino all’ultimo attimo di vita, assicurandogli rispetto e dignità e non sarà impreparato ad accogliere la sua morte”. Come riporta la Carta:” Il bambino, indipendentemente dalla sua età, vive tutte le esperienze che malattia e morte comportano. Egli ha il diritto di ricevere un’assistenza globale che si faccia carico di tutti i suoi bisogni clinici, psicologici, sociali, etici e spirituali (…). Tuttavia occorre riconoscere che potrebbero esservi opinioni contrastanti tra i diversi professionisti e con i famigliari su quali siano le scelte terapeutiche più appropriate. In questi casi il rapporto benefici/costo del trattamento vanno attentamente valutati in termini d’invasività e sofferenza percepite e le decisioni vanno prese tenendo conto del “miglior interesse” del bambino (…) di qualsiasi età e in ogni circostanza, rispettando e proteggendo i suoi valori culturali, spirituali, religiosi e familiari, che rappresentano i pilastri dell’identità personale”. Per offrire quel “meglio” ai più piccoli, a mio avviso, è auspicabile che gli adulti accompagnatori esplorino come si sviluppa l’idea di morte durante l’infanzia: la comprensione che un bambino ha della morte evolve con una serie di concetti legati tra loro arrivando ad una acquisizione personale anche ampia della rappresentazione della morte.
La paura della morte nei bambini si esprime spesso con la difficoltà ad addormentarsi, a volte l’angoscia più grande è proprio quella di morire nel sonno, pensano che se si addormentano non si risveglieranno, o magari hanno paura ad addormentarsi da soli e richiedono la presenza dell’adulto. È importante che in questi momenti i genitori superino le loro difficoltà a parlare di certi temi, dedicando tempo ed energie personali per approfondire l’argomento; a volte, infatti, si preferisce tenere il silenzio, si cambia discorso convinti di proteggere i figli da argomenti ritenuti dolorosi, ma non è così. Per i figli è fondamentale sapere che con i genitori si può parlare di tutto e che loro sono disponibili ad accogliere ogni loro domanda, su qualsiasi tema. Succede che il tema della morte sia delicato anche per i genitori, perché magari c’è stato nella loro vita un lutto non ancora elaborato e si ha paura di non saper gestire la situazione senza fare trapelare quel proprio dolore. In realtà anche fare trasparire il dolore, se c’è, è importante perché probabilmente i bambini già lo sentono ma non sanno ancora dargli un nome e delle caratteristiche. Dover parlare della morte ai bambini ci mette di fronte alle nostre paure e alle nostre ansie, ed è da queste che si deve partire per poter aiutare i bambini a comprendere cosa accade quando una persona a cui si vuole bene sta per lasciarci e poi non c’è più.
E’ importante educarsi ed alimentare il dialogo sul tema del morire a tutte le età, e per svolgere questo compito può rivelarsi un supporto prezioso essere affiancati da professionisti formati sul tema, siano esse operatori sanitari, assistenti spirituali, ministri di culto, o anche clown-dottori. Nel contesto pediatrico il dialogo può essere favorito da strumenti che facilitino la narrazione come la lettura di fiabe, il disegno, la musica, il gioco, senza trascurare l’importanza cruciale della comunicazione non verbale, del contatto fisico, di quei tocchi gentili che accompagnano anche il silenzio quando è nutrito di presenza e significato. La finalità è quella di far emergere, dare un nome ed accogliere le emozioni vissute e poter rispondere alle domande mentre emergono lungo il percorso, rispettando il principio di dare risposte che siano in linea con la verità e al contempo che possano essere rassicuranti.
Diversi studi hanno dimostrato come sia possibile elaborare in modo sano anche in età evolutiva la consapevolezza di essere mortali, evidenziando come essere consapevoli dei propri limiti aiuti a progettare meglio la vita, breve o lunga che sia, e valorizzarla. Alcune parole chiave unificano i percorsi della ricerca internazionale: tra queste il “concetto maturo di morte” e “spiritualità” sono forse quelle cruciali, perché accolgono l’ipotesi secondo cui l’elaborazione dell’idea di finitudine può divenire una risorsa positiva per conferire senso alla vita e rispettarla. E l’aspetto relazionale viene comunque indicato come perno su cui fare leva per comprendere l’idea di morte fin dall’infanzia, perché è proprio a partire dalla reciprocità e dall’ascolto che la testimonianza di un pensiero proprio e personale acquista significato.
“Esiste un ampio corpo di evidenze che dimostra una relazione tra spiritualità, religione e risultati clinici. La spiritualità e la religione contribuiscono in modo determinante al modo in cui le persone affrontano malattie e sofferenze. Provvedere ai bisogni spirituali e religiosi giova sia ai pazienti, sia al loro familiari che al sistema sanitario. La letteratura e l’esperienza clinica ci dimostrano come i bambini, fin dalla prima infanzia, abbiano una base spirituale che, modificandosi a seconda della capacità e delle competenze cognitivo-relazionali, attraversa differenti fasi di sviluppo, simili allo sviluppo fisico e psicologico pediatrico generale. La spiritualità in età pediatrica si manifesta ed evolve a partire da un’esperienza della sfera emotivo-relazionale che affonda le sue radici nelle esperienze primarie del soggetto, nella relazione (all’inizio tutta emotiva, corporea, istintiva) del bambino con i propri genitori e con chi si è preso cura di lui. La letteratura esistente, sebbene scarsa, suggerisce che i bambini abbiano una vita spirituale ricca ed intensa; aspetto che spesso va ben oltre la religiosità, attraverso la ricerca del senso della vita e del perché della malattia. Gli studi suggeriscono che la spiritualità (nella forma o meno della religiosità) gioca un ruolo preminente nella risposta dei bambini alla malattia cronica, ospedalizzazione, disabilità, cancro, terminalità e morte. Le risorse spirituali possono essere un potenziale fattore di sostegno o di ostacolo delle capacità di coping dei bambini, che significa capacità di saper mettere essi stessi in atto delle strategie mentali e di comportamento per fronteggiare le diverse situazioni problematiche: capire questo aspetto della loro esperienza di malattia è essenziale per fornire la migliore assistenza possibile ai bambini, agli adolescenti e ai loro familiari.” Parlare di spiritualità, quindi, non significa riferirsi necessariamente a un’appartenenza religiosa. Il tentativo di razionalizzare ogni aspetto della vita, secondo alcuni autori, alla fine ha procurato più angoscia di vivere perché non ci sono risposte razionali a tutto, ma ci sono risposte di senso attraverso percorsi differenti da quello logico, ordinario. Il senso del mistero è in realtà lo spazio dove si possono attingere risposte, non dogmatiche ma rasserenanti, all’enigma della sofferenza innocente. Se tutta la nostra attenzione è fissata esclusivamente sul visibile e se rifiutiamo l’invisibile ci sfugge una parte preziosa dell’esistenza, della vita e della morte.
A cura di:

Federica Bergamaschi
Psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-costruttivista.
Terapeuta metodo Simonton SCE
Contatti
Via Chiesanuova 242/2
35136 Padova
Si riceve su appuntamento:
Tel. e Fax: 049 871.66.99
Parcheggio presso la struttura
Orari
Orari di apertura/chiusura della segreteria del nostro studio:
Dal lunedì al venerdì
dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.30 alle 18.30
Sabato previo appuntamento
dalle 9.00 alle 19.00
Prenota un appuntamento
Mettiti in contatto con il Centro Costruttivamente, uno dei nostri professionisti sarà felice di discutere con te le tue esigenze.