La solitudine come “sintomo” della società post moderna

Negli ultimi tempi, anche a causa del Covid19, sono emersi momenti di riflessione da parte di professionisti ma anche dell’opinione pubblica, circa la solitudine che sembra contraddistinguere la nostra società.

Possiamo dire che ci sia un ruolo facilitatore di quest’ultima nel favorire una solitudine che decentra la naturale inclinazione dell’Uomo alla socializzazione stessa. Siamo infatti da molto incentrati su noi stessi per restare al passo con i tempi, in balia di proposte consumistiche e sollecitazioni mediatiche, smarriti di fronte alla libertà totale che ci viene fatta credere in nostro possesso, disorientati per la mancanza di istituzioni contenitive e strutturanti ai fini della costruzione identitaria dei singoli. In tutto ciò, come un grande contrasto con la globalizzazione, risuona la solitudine.  Forse mai come a partire dalla seconda metà del XX secolo si è sentito tanto parlare di solitudine e di isolamento.

L’angoscia dell’Uomo solo, sempre più solo a causa dei trasferimenti, dei traslochi, degli sradicamenti, della crisi della famiglia e delle piccole comunità alle quali apparteneva un tempo, costella la nostra epoca. Assistiamo ad una ricerca insaziabile di indipendenza, spesso fonte di solitudine. Solitudine in molti casi mascherata da unioni o associazioni varie, generalmente di breve durata, nelle quali lo stare insieme dà calore senza creare obblighi troppo pesanti, tanto è vero che il sentimento di solitudine può percepirlo anche chi non sembra esser solo.

Il vortice dentro il quale siamo finiti ci mette meno in contatto con la nostra persona, ci allontana dalla nostra vera essenza. Il desiderio di ritrovarsi e rinnovarsi in una sana solitudine viene alienato perché spaventa, perché non possiamo permettercelo.  Se perdiamo noi stessi però, anche il confronto con gli altri diventa più difficile in quanto si teme che i nostri spazi vengano invasi, temiamo che il nostro Essere venga messo a nudo attraverso domande, curiosità, richieste, che rientrano in quello che dovrebbe essere un normale approccio per dare inizio ad una conoscenza più approfondita.

Siamo affetti dalla cosiddetta “sindrome da ascensore”, cioè ci troviamo quotidianamente a stretto contatto con persone che magari conosciamo da anni, eppure in loro presenza il sentimento che prevale è l’indifferenza o l’imbarazzo. Se da un lato l’Altro ci mette in difficoltà in quanto ci sembra di non avere gli argomenti giusti, dall’altro anche una conoscenza un po’ più approfondita richiede tempo e ascolto, entrambi in antitesi con i ritmi di vita attuali. Vediamo come si genera facilmente un circuito patogeno, o comunque non sano, che alimenta sé stesso.

I nuovi strumenti tecnologici rischiano di tramutarsi in celle di isolamento, se non adoperate sfruttando tutta la loro potenzialità positiva. Sappiamo bene che si possono trascorre ore ed ore davanti ad un computer parlando attraverso chat o newsgroup: in apparenza si comunica ma bisognerebbe chiedersi qual è la qualità di questo tipo di comunicazione. Si tratta spesso di una comunicazione falsa e mascherata, che rischia appunto di favorire l’isolamento, l’incapacità di sostenere un autentico rapporto con gli altri.

Abbiamo accennato al fatto che oggi si fa fatica a trovare un’identità sicura in un mondo pieno di input, un mondo veloce ed esigente che viene sollecitato continuamente dai mass media, dalla tecnologia, da modelli che mutano incessantemente e che confondono figli e genitori, giovani e vecchi, ragazzi e ragazze, che le istituzioni non riescono a seguire adeguatamente (Lo Iacono, 2003).

Pensiamo ad esempio agli adolescenti che sono per antonomasia alla ricerca della loro identità cioè di quell’insieme di caratteristiche, valori, emozioni che rendono una persona unica.  La loro ricerca oggi è resa ancora più difficile dal fatto che la società, e la stessa famiglia, non sempre costituiscono saldi punti di riferimento presenti. Se da una parte la società è esposta a continui mutamenti che coinvolgono vari livelli (politico, economico, culturale, valoriale), dall’altra la famiglia ha ormai una struttura fragile che le rende difficoltoso, o comunque più complesso, il ruolo di guida proprio perché si è meno presenti (fisicamente e psicologicamente) e si lascia spazio a vuoti di solitudine che difficilmente possono essere colmati. Quindi a questa fragilità in termini di separazioni, litigi, mancanza di tempo e di dialogo, si cerca di sopperire ormai da tempo, con un’opulenza di oggetti. L’Oggetto diventa il surrogato dell’affettività genitoriale, qualcosa a cui aggrapparsi per conoscersi e ri-conoscersi.  Da adulti si rischia di continuare a percepire e usare l’Oggetto (macchine, vestiti, tecnologia…) come sostituto dell’Altro in una dinamica che non prevede una reciprocità umana. Al bisogno di riempire un vuoto che spaventa corrisponde l’opulenza dilagante nel concetto di ipermodernità che porta con sé troppe informazioni, troppi stimoli, troppi “pieni virtuali”. Il mutamento legato alla condizione postmoderna è, possiamo dire, notevolmente rafforzato da un fenomeno indubbiamente inedito nella storia dell’umanità, non quello del mutamento che è il segno stesso della storia in divenire, ma quello dell’accelerare il cambiamento. 

Probabilmente oggi l’incontro con sé stessi diventa ancora più importante e di primaria necessità rispetto ad un tempo, per poterci muovere nella società in “compagnia” di noi stessi e allo stesso tempo confrontarci con il mondo esterno senza timori generati da insicurezze e proiezioni sull’Altro. Sapere chi siamo, cosa desideriamo autenticamente, può orientarci e mantenere un sano approccio critico nei confronti delle richieste e sollecitazioni della società, nonché favorire un incontro potenzialmente costruttivo con l’Altro.  

                                    *Tratto dal contributo al volume “Famiglie e Covid19, come orientarsi” a cura di Bassem J.Khoori e Vassilios Fanos – Ed.: Hygea Press

A cura di:

Dott.ssa Roberta Cicchelli

Psicologa, psicoterapeuta, psicosomatista